lunedì 14 maggio 2012

Frammento di racconto - Lord Byron


E' il maggio del 1816, fuori dalla Villa Diodati piove incessantemente.
Immaginiamo un delizioso giardino ormai divenuto pantano e immaginiamo all'interno di quella lussuosa villa delle persone che parlano, raccontano ed ascoltano storie di fantasmi.

La sera prosegue intervallata da sospiri, domande e sguardi impauriti fino a quando un certo Lord Byron, padrone di casa, propone ai suoi ospiti una gara di scrittura... una sfida sullo scrivere il racconto del terrore più bello.

I suoi ospiti accettano di buon grado la sfida, anche se solo due di loro riusciranno a portare a termine la gara e finire i loro racconti.

I nomi dei vincitori sono:

John Polidori con il suo "Il vampiro"
Mary Wollstonecraft Godwin (Mary Shelley) con il suo Frankenstein

Due racconti nati per caso, per gioco e destinati ad essere le colonne portanti del genere letterario gotico.




Il racconto che oggi voglio inserire su questo blog è un frammento di una storia mai terminata ed ampliata, scritta da Lord Byron in quella notte di maggio del lontano 1816 e fonte d'ispirazione per il suo medico ed amico Polidori, per stendere il suo racconto "Il vampiro".

Un Frammento dalle potenzialità infinite, ma poco conosciuto ai molti.

Buona Lettura



(Lord Byron)


Fermamente determinato a compiere un viaggio in paesi fino ad allora non molto frequentati dai viaggiatori, partii, accompagnato da un amico, che chiamerò Augustus Darvell. 
Alcune circostanze peculiari nella sua storia personale lo avevano reso ai miei occhi oggetto di attenzione, di interesse, e perfino di rispetto, che neppure la riservatezza dei suoi modi, né lo sporadico manifestarsi di un’inquietudine alle volte vicina all’alienazione mentale, poteva fare venir meno. Udii molte cose sulla sua vita passata e presente; e, sebbene in questi resoconti ci fossero molte e inconciliabili contraddizioni, avrei potuto ancora dedurre dall’insieme che egli era un essere non comune, e uno che, qualunque pena potesse soffrire per evitare di essere notato, sarebbe stato notato. 

Io mi ero sforzato di ottenerne l’amicizia. 
Egli aveva il potere di dare ad una passione l’apparenza di un’altra, in uno modo tale che era difficile definire la natura di ciò che si agitava in lui. 
E le espressioni dei suoi lineamenti potevano variare così rapidamente, anche se in modo lieve, che era inutile ricondurle a ciò che le aveva provocate. 
Era evidente che era preda di qualche invincibile inquietudine; ma se sorgesse da ambizione, amore, rimorso, dolore, da uno o da tutti questi sentimenti, o semplicemente da un morboso temperamento incline alla malattia, non potei scoprirlo. 
Dove c’è mistero, generalmente si crede che ci debba essere anche il male. 
Non so come ciò potesse accadere, ma in lui sicuramente c’era l’uno, sebbene non potessi appurare l’entità dell’altro – e mi sentivo riluttante, riguardo a lui, a credere alla sua esistenza. 
Le mie profferte d’amicizia furono accolte con una certa freddezza: ma ero giovane, e non facilmente scoraggiabile, e alla lunga ebbi successo. 

Darvell aveva già viaggiato molto; e a lui mi ero rivolto per informazioni riguardo alla definizione del mio progettato viaggio; era un mio desiderio segreto di poterlo indurre ad accompagnarmi. 
Dapprima allusi a questo desiderio, poi ne parlai espressamente: la sua risposta, sebbene in parte me la aspettassi, mi diede tutto il piacere di una sorpresa – acconsentì. 
E, dopo i necessari preparativi, partimmo. 
Dopo aver viaggiato attraverso vari paesi del sud dell’Europa, la nostra attenzione fu attratta dall’Est, secondo il piano originale. 

E fu durante lo spostamento attraverso queste regioni che si verificò l’incidente del quale racconterò. 
La costituzione di Darvell, che, a giudicare dall’apparenza, doveva essere stato, in gioventù, più robusto della norma, si era da un po’ di tempo gradualmente indebolita, senza l’intervento di alcuna apparente malattia: non tossiva né aveva febbre, tuttavia diveniva ogni giorno più debole. 
Avevamo programmato, al nostro arrivo a Smirne, un’escursione alle rovine di Efeso e Sardi, dalla quale tentai di dissuaderlo data la sua indisposizione – ma invano. 

Avevamo compiuto mezza strada in direzione dei resti di Efeso, quando l’improvvisa e rapida malattia del mio compagno ci obbligò a fermarci presso un cimitero turco. 
L’unico caravanserraglio che avessimo visto ce l’eravamo lasciato alle spalle da alcune ore, e questa “città dei morti” pareva costituire il solo rifugio per il mio sfortunato amico, che sembrava sul punto di diventare l’ultimo dei suoi abitanti. 
Cercai lì attorno un luogo dove avremmo potuto riposare: sotto uno degli alberi più grandi, si appoggiò Darvell con grande difficoltà. 
Chiese dell’acqua. Descrisse con grande precisione il punto in cui la si sarebbe potuta trovare: vi andò il giannizzero. Dissi a Darvell: “Come facevi a saperlo?” rispose: “Sono già stato qui prima”. 
“Sei già stato qui! Perché non me lo hai mai detto?” 
Non ottenni risposta. 
Intanto Suleiman era tornato con l’acqua. 
Darvell cominciò: “Questa è per ma la fine del viaggio, e della mia vita. Sono venuto qui a morire. Ma ho una richiesta da farti, un ordine – tali devono essere le mie ultime parole. Le rispetterai?”
"Certamente. Ma ho ancora speranza”.
 “Io non ne ho, e nemmeno desideri, tranne questo: tieni nascosta la mia morte a tutti, a tutti! Giuralo, su tutto quello che…” - e impose un giuramento di grande solennità. 
“Non ce n’è ragione…” 
“Devi giurare”. 
Pronunciai il giuramento, e questo sembrò risollevarlo. Si sfilò dal dito un anello a sigillo, sul quale c’erano dei caratteri arabi, e me lo diede. 
Poi continuò: “Il nono giorno del mese, a mezzogiorno in punto, dovrai gettare questo anello nelle sorgenti salate che scorrono nella baia di Eleusi; il giorno successivo, alla stessa ora, dovrai recarti alle rovine del tempio di Cerere, e aspettare un’ora”. 
“Perché?” 
“Vedrai” 

Quando osservai che quello era il nono giorno del mese, la sua espressione mutò, e fece una pausa. 
E non appena si sedette, evidentemente diventando sempre più debole, una cicogna, con un serpente nel becco, si appollaiò su una tomba accanto a noi; e, senza divorare la sua preda, ci fissava intensamente. 
Darvell la indicò e sorrise. 
Disse – non so se a se stesso o a me – ma le parole furono soltanto: “È un buon segno! Mi dovrai seppellire qui questa sera, nel luogo preciso dove è appollaiato questo uccello”.
Poi sorrise in modo agghiacciante e disse con voce debole: “Non è ancora il momento!”. 
E come parlò la cicogna volò via. 

I miei occhi la seguirono per un poco – a malapena poco più a lungo del tempo di contare fino a dieci. 
Sentii il peso di Darvell, per così dire, incombere sulla mia spalla e, voltandomi per guardarlo in faccia, mi resi conto che era morto! Ero sconvolto dall’improvvisa certezza che non potevo essermi sbagliato – il suo volto in pochi minuti divenne quasi nero. 
Il giorno stava per finire, il corpo si alterava con rapidità, e non rimase altro che adempiere alla sua richiesta. Scavammo una fossa nel luogo che Darvell aveva indicato fino a quando l’ora ce lo permise, e gettando la terra asciutta su quello che restava di quella strana creatura che se n’era appena andata, rimuovemmo alcune zolle del tappeto erboso più verde dal suolo meno secco intorno a noi e lo deponemmo sopra il suo sepolcro. 
Sospeso fra lo stupore e il dolore, ero privo di lacrime.

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